Referendum costituzionale, Luigi Caputo (Prc): “no alla controriforma renziana in difesa della sovranità popolare”
Pubblicato in data: 28/11/2016 alle ore:06:48 • Categoria: Politica, Prc •Se fino a poco tempo or sono qualcuno – esperto, o “cittadino”, apocalittico o i
integrato, politico o antipolitico, avesse immaginato che il Senato della Repubblica
non sarebbe stato più eletto dal popolo, e che sarebbe stato sostituito da
un’assemblea formata da sindaci e consiglieri regionali estemporaneamente convocati,
insieme alle strane figure dei cinque senatori di nomina presidenziale, ma non più a vita, nella capitale, sarebbe stato preso per visionario. La mera ipotesi di prevedere un organo politico costituzionale non scelto dal popolo avrebbe evocato infatti uno scenario in qualche modo pre-moderno, monarchico, da ancien régime.
E’ come se nel corso di questi anni si fosse inteso preparare il corpo elettorale all’
idea che eleggere i propri rappresentanti nelle istituzioni non fosse più una norma (e
una prassi inderogabile), ma una semplice variabile, un’ipotesi tra le altre.
Anche in occasione dell’abolizione dei Consigli provinciali (spacciata per “abolizione
delle Province”), l’argomento del risparmio economico è stato adoperato come parola
chiave per giustificare l’intervento soppressivo. L’argomento del taglio dei costi
della politica è assurto a tratto distintivo dell’intera campagna per il SI’. In un
curioso (e straniante) corto circuito logico-comunicativo, l’emblema massimo del
potere politico nazionale, il presidente del Consiglio, esorta i cittadini ad approvare
il suo progetto all’insegna della parola d’ordine: “Meno politici !”. E, dato davvero
inquietante, vista la riproducibilità in forma seriale e potenzialmente del tema, non
è lecito escludere, in linea di principio, che si possano propugnare, in futuro,
ulteriori, analoghi interventi restrittivi del suffragio. Se può sembrare eccessiva la
definizione di colpo di stato bianco per quanto oggi si sta tentando di realizzare,
sicuramente siamo di fronte a una forma di eversione della Costituzione, un vulnus inferto al principio cardine della sovranità popolare. Come
ha affermato G.Zagrebelski, non può darsi autentica sovranità senza il suo concreto esercizio.
Per avere un’idea del salto regressivo che l’abolizione dell’elettività del Senato
comporterebbe, basti pensare che nessun Paese europeo a sistema bicamerale, fatta
eccezione per quelli a ordinamento federale (che sono, com’è noto, peculiari), prevede
un’elezione della camera alta integralmente indiretta, ovvero con sistemi di secondo grado. La maggioranza di essi si regge su sistemi misti. Anche laddove è presente il
sistema di secondo grado, inoltre, si tratta di una caratteristica originaria
dell’ordinamento, mentre nel caso italiano si tratterebbe di una clamorosa inversione di una tendenza, si avrebbe invece
una retrocessione storica rispetto a un ordinamento edificato e consolidato sul presupposto dell’elezione diretta.
E’appena il caso di ricordare, poi, che il sistema degli Stati Uniti, Paese al quale
guardano come modello tantissimi fautori del SI’, si fonda, sotto questo profilo, su
una forma del tanto vituperato bicameralismo perfetto o paritario.
Il problema -Senato viene risolto dai neoteroi renziani, vista la sua impossibile
normalizzazione, con la più brutale delle soluzioni: l’esclusione dal circuito fiduciario.
E se per arrivare a questo obiettivo è necessario – come sostiene Renzi – eliminare l’elettività del Senato stesso snaturandone la composizione, tanto di guadagnato. Il discorso pronunciato da lui pronunciato a Palazzo Madama in occasione
dell’insediamento del suo governo, non rappresenta soltanto un guanto di sfida
lanciato da un potere allo stato nascente al vetusto simbolo di un ‘Italia destinata a
scomparire, ma contiene anche una precisa enunciazione programmatica, delineando
un assetto istituzionale che vede il governo svincolarsi progressivamente dal controllo delle Camere, in una dinamica destinata a sfociare nella fuoriuscita dalla democrazia
parlamentare – di cui la controriforma odierna potrebbe segnare soltanto la
prima tappa. La rappresentazione renziana di un Senato corporativo, una sorta di
camera di Lords decaduti e petulanti, chiusi nella pervicace difesa di inveterati
privilegi di status (laddove è arcinoto che molti di essi troveranno spazio nella camera
normalizzata, adeguata ricompensa per l’assenso dato all’eutanasia della
Camera alta), è funzionale in realtà a una prassi di sovversivismo dall’alto animato da
una sfacciata ispirazione antipolitica. Un approccio al tema della riforma delle
istituzioni non viziato dal pregiudizio, non avrebbe potuto prescindere dall’elementare
constatazione che solo con la “Seconda Repubblica” compare il fenomeno
della difficoltà a reperire maggioranze stabili al Senato laddove nella tanto
vituperata “Prima Repubblica”, retta dal proporzionale, le maggioranze erano sempre
state omogenee. Essendo tale sistema incompatibile con l’ideologia renziana e
nuovista sulla rappresentanza, con il connesso personalismo a tendenza plebiscitaria,
si è scelta la strada dello sfondamento di estrazione sovversiva. Con un Senato
neutralizzato e ridotto ai minimi termini, e una Camera normalizzata in virtù di una legge elettorale fraudolenta, si inverte il naturale rapporto tra i soggetti titolari del
potere pubblico: in un surreale e rovinoso rovesciamento dei ruoli, le Camere vengono a
configurarsi come l’esecutivo di (quello che fu) l’esecutivo.
Conosciamo benissimo le obiezioni dei sostenitori del Sì a questa ricostruzione: esse
si compendiano nella formuletta magica dell’elezione dei nuovi senatori da parte dei Consigli regionali “in conformità” “alle scelte espresse per i candidati consiglieri in
occasione del rinnovo dei medesimi organi”, come recita al comma 4° il riformulato art. 57 Cost. Qui la quantità di contro-osservazioni assumerebbe proporzioni fluviali: al
netto di disquisizioni giuridiche sull’espressione in conformità, riguardo alla quale ci limitiamo ad osservare che in genere viene utilizzata per riferirsi a concetti, e non
a(lla scelta di) persone, va rilevato che 1) un’elezione “sotto dettatura” dei nuovi
senatori da parte dei Consigli regionali rappresenterebbe una violazione delle
prerogative di un organo inserito a pieno titolo nella Costituzione, quantunque si tratti
della dettatura del corpo elettorale, anzi, proprio perché la legittimazione di quelli
(i Consigli regionali) promana da questo (l’insieme dei cittadini residenti nella regione);
- essa si configura dal punto di vista pratico irrealizzabile, vista l’eterogeneità –
potenziale e fattuale – dei sistemi elettorali, anch’essa prevista dalla
Costituzione (“Il sistema di elezione (……..) del Presidente e della Giunta
regionale nonché dei consiglieri regionali sono disciplinati con legge della
Regione”, art. 122 comma 1, invariato), soprattutto se per conseguire tale
obiettivo si dovesse utilizzare il sistema delle preferenze, che, proprio in
virtù della citata autonomia, non tutte le legislazioni regionali potrebbero
contemplare. Se si intendeva mantenere l’elettività del Senato, sarebbe
bastato lasciare inalterato l’art. 58, il quale prevede l’elezione del Senato a
suffragio universale, e non abrogarlo, come invece è stato fatto.
Un’ultima annotazione, che pare opportuna anche alla luce del fatto
che, nell’affannosa ricerca di un substrato politico-culturale per la loro
controriforma, Renzi e i suoi stanno attingendo, interpretandolo a modo loro, cioè
disinvoltamente, al lascito dei costituenti, diffondendone un’immagine di personaggi,
se non pentiti, tormentosamente insoddisfatti del proprio operato. Se vi sono dei
temi che concorrono più di altri ad imprimere il tono complessivo della carta
costituzionale, a connotarla in senso pienamente democratico, la
configurazione del Senato rientra a pieno titolo tra questi. La definizione
individuata dalla Costituente fu adottata con totale consapevolezza e non, secondo la
caricaturale rappresentazione dell’odierna vulgata, come una soluzione di ripiego da
parte di un’assemblea bramosa di concludere i propri lavori. Sul campo si
confrontavano sostanzialmente tre proposte: elezione diretta a suffragio universale
elezione di secondo grado affidata ai consigli regionali (che si avvicina molto a quella
odierna), un’elezione, sempre indiretta, finalizzata a far “partecipare alla seconda
camera i gruppi nei quali spontaneamente si ordinano le realtà sociali (…) secondo un
criterio di ripartizione a base territoriale regionale (…) mediante elezione a doppio
grado (ispirate al) criterio della proporzione con l’entità numerica delle categorie,
insieme a quello della maggior responsabilità del lavoro qualificato” (dall’o.d.g. dei DC
Moro- Piccioni). La scelta dell’elezione a suffragio universale e diretto, fortemente
voluta dalle sinistre socialista e comunista, segnò una rottura con tutti quei residui di
carattere corporativo e organicistico che intendevano ancorare il Paese a un
orizzonte ancora in gran parte premoderno. Oggi, grazie al nuovismo di Renzi, siamo
nuovamente posti di fronte a quel bivio, all’alternativa che un tempo si
sarebbe detta tra rinnovarsi e perire. Solo che adesso i termini della questione sono
cambiati: il voto per il SI’ significa chiudere la porta al cambiamento, quello reale,
che investe la realtà sociale trasformandola, e consegnare ancora più potere alle
oligarchie finanziarie e alle sue propaggini nazionali; mentre il voto per il NO
riapre le porte al cambiamento vero, quello che passa per l’attuazione – e non il
ripudio- della Costituzione, e offrirebbe condizioni migliori, alle forze disperse della
sinistra, per la realizzazione di quella missione storica e non più eludibile della
costruzione di una sinistra popolare, operaia, di massa, all’interno della quale possa
esprimersi pienamente il protagonismo dei comunisti.
Luigi Caputo
presidente Collegio Federale di Garanzia – partito della Rifondazione Comunista Federazione di Avellino
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