“A Carnevale tutto è Zeza” nel racconto di Gabriele De Masi
Pubblicato in data: 28/2/2017 alle ore:15:09 • Categoria: Cultura •Nei rituali irpini ha grande importanza il gesto, che integra, a volte fino a sostituire, la parola; gesto che risveglia, nel ripostiglio della memoria della nostra gente, l’ancestrale presenza delle mani, delle braccia, del volto, del corpo tutto in una mimica sapiente, quasi altra pelle sconosciuta, che riaffiora all’improvviso. Gesti di popolo, naturali e antichi, che non sanno l’artificio ma la fatica e il sudore, la fede e la superstizione, l’amore profondo e la collera, la rara gioia e le tristezze, il bicchiere di vino e la rinuncia, il pianto e lo slancio, la sopportazione e la volontà.
La vita scorre. Il tempo riporta nascite, morti, amori, avvenimenti, feste e ricorrenze.
A Montemarano, il Carnevale inizia il 17 Gennaio, festa di S. Antonio Abate, il santo mendicante, con gruppi che si vestono in maschera per girare a pulire con la scopa la soglia delle case, per poi chiedere un obolo che servirà per bicchierare, comprare altri costumi, finanziare le domeniche e i feriali grassi che precedono le Ceneri. Intanto si preparano Bellizzi, frazione della città capoluogo, San Potito, Cesinali, Capriglia Irpina, Borgo di Montoro, Mercogliano, Montemiletto, Summonte, Aiello, per la Zeza; Avella, Taurano e Baiano per “Il laccio d’Amore” e per “i mesi”; Petruro, Serino, Piazza di Pandola, Forino, Gesualdo, Fontanarosa, Montefalcione, Calitri, Volturara, per “le mascherate”; Castelvetere e Paternopoli per la sfilata dei carri; Montemarano, inoltre, per la tarantella; ecc.
Carnevale arriva tra i giorni senza averne uno fisso. Compare e scompare, mette il cappotto e si sveste, si organizza e si sgretola. Oggi, del Carnevale Irpino, leggiamo negli speciali e negli studi dei maggiori quotidiani e periodici nazionali. Per noi rappresenta l’inverno, i paesani, la mimosa, la fame, la Zeza. Il freddo è stato sempre tanto; mai, avuto il caldo di Rio.
Ricordo come nel dopoguerra si rimanesse in casa, al chiuso, a sforbiciare dai giornali strani coriandoli con gli angoli, perché quelli rotondi e multicolori erano un lusso. Si aspettava, così, la Zeza di Cesinali, o di Bellizzi, Serino e di San Potito. Grancassa, rullante e piffero ne anticipavano l’arrivo. Vestiti vistosi, multicolori, nastri rosa e rossi, cappelloni, inappuntabili mariti, orribili spose con spropositate poppe ed impudichi sederi, gialle nell’abito di nozze, che aveva dimenticato il candore, stando in chissà quale cassapanca. Storia paesana di pezze e di toppe, di sfogo e baldoria, di lustrini e perline, di cipria e rossetto, che non sanno per un giorno gli stracci e gli scarponi, la polvere e il sudore di campi e di botteghe. Sotto al nostro balcone, il cacciatore con pendagli e scoppio lasciava partire, con un colpo netto delle braccia, la scaletta che arrivava, tra la meraviglia di noi bimbi, in alto, in alto, con rametto di mimosa alla punta. Mia madre accettava e ricambiava con poche lire di carta, che noi piccoli agganciavamo alla scaletta, miracolosamente per aria, che, come un sogno, vedevamo, ad un tratto, ritirarsi verso la strada. E, giù, i nostri coriandoli di varie geometrie. La Zeza se ne andava saltellando con un codazzo di gente verso la piazza. Allora come oggi, a Carnevale tutto è Zeza.
Tarantelle, mascherate, quadriglie, mesi, lacci, questue, funerali di Carnevale e Zeza vera e propria, erano la fantasia e lo sfizio, la baldoria, la risata e la curiosità oltre il grigio invernale. Era ed è, ancora oggi che non mancano pasti abbondanti, il cibo. Lamenta un canto altirpino, per una famiglia colpita a lutto: “Quist’anno, Carnevale è sciuto muscio/quist’anno maccaruni e carne non se so’ fatti…”. Il nostro Carnevale muore simbolicamente per l’ennesima polpetta che si ferma in gola, per il grande sbafo. Le polpette erano il cibo delle feste dei poveri. Poca carne e tanto pane. E di polpette, polpettoni e polpettine i nostri giorni grassi che precedono la Quaresima sono pieni e finanche nella pasta a lasagna.
Durante la guerra, chi poteva cucinare un pezzetto di carne si diceva fortunato. Lo si conservava gelosamente e si preparava, sempre con lo stesso pezzo, il sabato il brodo, la domenica il ragù e il lunedì le polpette. Carnevale, Zeza di deschi poveri d’un tratto imbanditi, festa di cibo azzannato nel ricordo nero di fame atavica, partecipazione allo sbafo in faccia alla miseria e alle rinunce di tutti i giorni passati e da venire; di tutta una vita.
È, Zeza, la moglie di Pulcinella, che avendo una bella figlia, Porzia (come detta a Bellizzi), Vincenzella (come a San Potito) e conoscendo la vita, tenta, in tutti i modi, di cercarle un buon partito, il medico don Zenobio (così denominato a Bellizzi) il notaio don Nicola (a San Potito), per maritare la giovane piuttosto che favorire sbarbatelli senza pane e futuro, come il marinaio o il pescatore. Pulcinella controlla, con lo schioppo che spara a farina, che tutti stiano lontani dalle sottane della sprovveduta figlia. La giovane finisce per andare in sposa al re di denari e il fante di cuori resta a terra. Anche questa è storia del Sud.
Ma oggi il Carnevale? Quello di ieri! Né mi sento di stilare una locandina di appuntamenti come per dire: “Venite a vedere le nostre Zeze, le nostre bellezze”. Non siamo Venezia e Viareggio.
Non troverete belle donne travestite e truccate per essere ancor più guardate e osservate, grande sfarzo e ricchezza, veglioni e profumi. Vedrete la storia, questa sì di un Carnevale povero, antico, genuino, dalle mani callose e con le unghie sporche, con gli uomini vestiti da donna che ripetono nei rituali i gesti di un popolo irpino che non si veste per moda o per moneta. Ritroverete nelle danze, nella mimica e nei racconti né false giostre né posticce contrade, ma il passato che è presente, che si fa vita perché abitudine e uso ancora attuali e spontanei. Colori scoppiati e sgargianti, violenti e impropri, pacchiane fogge e superate taglie, che ignorano il più recente design italiano, ostentando, inconsapevolmente, il kitsch come garanzia di spontaneità, di genuinità, di verità; pane di casa, ruvido e senza forma, ma che, diversamente da quello di città, dura più di un giorno.
Gabriele De Masi
(Riproduzione riservata)
Lascia un commento