“Migrazioni: memoria e futuro”, ieri mattina convegno in ricordo di Biagio Venezia. L’intervento del professor Toni Ricciardi. FOTO
Pubblicato in data: 28/5/2017 alle ore:15:00 • Categoria: Cultura •Il seminario sui temi della migrazione e delle migrazioni, nell’ambito della manifestazione “Il Libro in fiera 2017”, si è tenuto presso il Convento S. Maria della Purità di via Cammarota.
Allora, poniamoci una domanda: come decliniamo il concetto di civiltà italiana, ammesso che esista e che abbia senso parlare di civiltà nazionale o territoriale?
Una suggestione, più che una risposta, è rintracciabile nella rappresentazione architettonica della civiltà italiana, ovvero, il “Palazzo della civiltà italiana” (quartiere Eur, Roma). I lavori iniziarono nel luglio del 1938, anche se incompleto venne inaugurato nel 1940 e concluso nell’immediato secondo dopoguerra. Il palazzo nelle quattro testate riporta la scritta: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. In altre parole, da Colombo alla valigia di cartone, la migrazione, anche per il fascismo – che volutamente e erroneamente è stato rappresentato dagli storici, per decenni, come regime contrario alle migrazioni – fu un elemento della presunta italica civiltà. Siamo stati un popolo di migranti e lo siamo ancora oggi, e probabilmente lo saremo per sempre. D’altronde, lo furono i veneti come i lombardi o i piemontesi, gli inglesi come i tedeschi, gli irlandesi o i polacchi, come lo furono i siciliani in Tunisia nell’Ottocento, o i tanti che oggi non definiamo più emigrazione, bensì mobilità. Eppure, nonostante la storia dell’umanità, della sua civiltà – perché non esiste una civiltà nazionale, figurarsi una territoriale o legata al proprio campanile – si sia evoluta, migliorata, arricchita e progredita grazie all’interscambio tra persone e quindi tra usi e costumi (per dirla in maniera semplice), oggi non riusciamo ad accettare proprio l’interscambio. D’altronde, come si fa ad accettare la morte del proprio campanile? Come si può accettare la polverizzazione della propria comunità? O peggio, che la casa popolare venga assegnata alla famiglia di migranti nel minuscolo borgo d’Irpinia, rispetto a quella di giovani “indigeni”? Eppure è già successo in altre parti d’Europa, come in altre parti d’Italia. Ieri come oggi.
Allora come si fa? Probabilmente, ma anche questa è una suggestione, o forse no, riscoprendo e accettando, intanto, cosa siamo stati e cosa siamo. Assumendo la consapevolezza che la nostra identità, ammesso che abbia senso parlare di identità, altro non è che il prodotto di millenni di interscambi, di contatti con l’altro che hanno, questi sì, prodotto nel bene e nel male, la civiltà umana. Probabilmente, dovremmo definitivamente abbandonare la retorica della comunità, che se da un lato ci dà la sicurezza di tradizioni nelle quali siamo cresciuti e ci siamo formati, parimenti ci tiene inchiodati a processi che non sono in grado di farci capire e quindi accettare l’altro. E se la civiltà italiana non esiste, nel senso che non è rintracciabile nei suo confini territoriali, bensì, come pezzo di una ben più grande e globale, parimenti, non esiste, vista la sua storia, una civiltà irpina da preservare.
E se la migrazione, ieri come oggi, è stata ed è sofferenza, distacco, ma allo stesso tempo ricchezza e crescita, in tutti i sensi, analizzarla e comprenderla ci aiuta a dare senso alle parole in ricordo di Biagio Venezia: “La vera memoria è quella del futuro, quella che permette di essere pienamente se stessi, non ripiegandosi nel passatismo e consolandosi con una fantomatica ‘età dell’oro’ ormai fatalmente smarrita, ma aprendosi a un progetto di continua scoperta”.
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